Articolo di Marco d’Amato
È nella Kaṭha Upaniṣad, collegata al Krsna Yajurveda che il termine “yoga” compare per la prima volta nei versetti: “Solo quando manas (mente) con pensieri e cinque sensi si ferma,/e quando Buddhi (intelletto, potere alla ragione) non oscilla,/chiamano la via più alta./Questo è ciò che si chiama Yoga, la quiete dei sensi,/la concentrazione della mente./Non è una lussuria sconsiderata, lo Yoga è la creazione e la dissoluzione/”.
Questa Upaniṣad del periodo medio, discostandosi dal clima dei grandiosi miti cosmogonici delle Upaniṣad antiche, si apre a speculazioni più specificamente filosofiche e psicologiche, preannunciando elementi che poi saranno sviluppati a fondo nelle successivedarśana, le scuole interpretative dell’induismo. Una tradizione che racchiude un insieme di esercizi fisici, mentali, spirituali e ha origini lontanissime risalenti a oltre 7000 anni fa.
Gli antichi yoghi, che vivevano nelle zone himalayane, cominciarono a sperimentare su se stessi, guidati dall’intuizione, quelle tecniche. Ciò li portò a scoprire i segreti della natura umana e la radice della felicità ed impararono a calmare la mente usando particolari posizioni, seguendo il ritmo del respiro, con l’aiuto di sillabe acustiche e visualizzazioni.
Senza questa premessa non si può cogliere il senso intrinseco della pittura di Alessandro Fioraso, il quale è nato a Torino nel 1957; studia dell’uomo il profilo psicologico, spirituale, umanistico; si avvicina allo yoga nel 1985 seguendo i precetti del Maestro indiano James Erruppakkattu e attualmente ne è insegnante.
Fu suo padre Gianni, valente pittore, a trasmettere al piccolo Alessandro la passione per la pittura.
Negli anni ’80 frequenta per due anni un corso di disegno e pittura presso la Scuola d’arte di Lella Burzio, affinando manualità e stile; dal 2001 al 2007, la Scuola del pittore Oscar Bagnoli, gli artisti Alessandro Fabris, Vinicio Perugia e il corso di “nudo dal vero” al Primo Liceo Artistico di Torino sotto la guida di Santo Leonardo.
Alessandro declina un realismo, rivisitato, inteso come pura soggettività in cui predomina il valore ‘lirico’ e viene accentuato dalla capacità evocativa e poetica del colore; da una proposta estetica, per lo più d’ispirazione autobiografica mirante a un’estrema essenzialità espressiva, nondimeno i suoi soggetti sono eseguiti mediante una notevole capacità grafica e cromatica.
Paolo Levi in una nota ha scritto “[…] Forse questo artista non sa, o non vuole sapere, di avere iniziato una nuova corrente di ricerca nell’ambito dell’arte figurativa. Proporrei la definizione di ‘Realismo Lirico’, poiché egli segue i canoni espressivi applicati alla ricerca di Renato Guttuso (Bagheria 1911 – Roma 1987) […]”, che è stato il punto di riferimento del neorealismo italiano del secondo Novecento, subendo influenze forti e diverse fra loro, dall’Ottocento francese fino al cubismo di Picasso; ma al contempo accentuò la sua attenzione, spesso polemica, verso le questioni sociali quanto, più spesso, verso soggetti ispirati alla sua terra natia, la Sicilia: una terra che offriva all’artista singolari prospettive del quotidiano; la realtà per il Maestro era «un rendiconto di ciò che la realtà è, di ciò che è dell’uomo», ed proprio questa sua inclinazione che svolgerà un ruolo di traino nell’evoluzione in senso “realista” della pittura italiana.
E un esponente del realismo “lirico”, Gianbecchina, nome d’arte del pittore Giovanni Becchina (Sambuca di Sicilia 1909 – Palermo 2001), invece, attraversata l’esperienza milanese di Corrente, dal 1940 diede vita ad una pittura caratterizzata da un realismo del tutto originale, diverso dal realismo “sociale”, teorizzato prima dal Fronte Nuovo delle Arti, poi dal Manifesto del Realismo, redatto a Venezia nel 1946. Infatti, quello di Gianbecchina, sottolineò Tanino Bonifacio, “[…] sarà ben lontano dall’impianto figurale di Guttuso, che farà dei suoi soggetti pittorici dei meri emblemi narrativi e dei simboli illustrativi così come accadeva nel Picasso di Guernica. A quel tragico dualismo realismo-astrattismo, che per troppi anni paralizzò l’evolversi dell’arte italiana del secondo dopoguerra, Gianbecchina rispose con una interessante “terza via”, una “terza posizione” che costituirà una vera e propria poetica personale: il “realismo lirico” […]”.
Alessandro Fioraso ha saputo metabolizzare la lezione traendone anche spunti: i suoi lavori, invero, accennano a immagini di natura, trasfigurati: siano essi asceti, volti ieratici, sospesi quasi a mo’ di erme o paesaggi, o fiumi o mari orientali ove diradate atmosfere rimandano a fondali fabulosi o Màndala: (Il risveglio e L’impermanenza, entrambi del 2016), a centro dei quali è posto il taijitu, emblema della cultura cinese e in particolare della religione taoista e della filosofia confuciana, che rappresenta il concetto di yin e yang e l’unione dei due principi in opposizione, da cui si dipanano sei stilizzati petali di fior di loto che disegnano motivi e diagrammi: simboli sacri che esercitano in silenzio la propria influenza mistica, ancestrale e magica.
Il Màndala L’impermanenza, (termine composto da in negativo e permanenza, derivato di permanere, uguale in latino, che a sua volta è composto da per intensivo e manēre restare; altro non è che la transitorietà dei fenomeni: tutto è passeggero, tutto muta, niente è eterno: l’accettazione di questa verità, o meglio, la sua concreta e costante percezione, permette uno sguardo sereno sul fluire delle cose) celebra, inoltre, la metafora dell’uomo travolto dal scorrere della vita, consapevole di poter resistere alla furia della corrente, la cui mano pare voler soltanto deviare le vorticose acque degli accadimenti.
Intrigante è altresì la tela Chi sono io del 2008 in cui il pittore inscena una commedia della vita:apre il sipario e pone interrogativi.
In primo piano un volto-rudere, vacuo, sorretto da due mani, ricorda le nostre fragilità; una scala infinita su cui un minuscolo uomo, esile, sale i gradini della conoscenza; lembi di terre arse di malinconia affiorano da un mare nero; maschere dietro cui si celano sguardi vuoti, oscure emozioni; lontano, una catena di montagne; in alto, spettrale, un astro; oltre, pare il mondo iperuranio.
“Perla rara” il ritratto di una donna incantevole, conscia del suo charme, emerge austera, da un buio intrigante, realizzato con sciabolate di colori ‘feriti’ che colano rammarico e compita Vorrei vedere del 2017.
Il suo Vorrei vedere denota la volontà di squarciare il velo che le avvolge parzialmente il viso adamantino e copre gli occhi occultati; le labbra carnose e sensuali, imbronciate, esprimono tutto il disappunto del diniego.
I soggetti plasmati, più che dipinti, di questa e di tante altre opere, confermano, se mai ce ne fosse bisogno, la maestria di Alessandro Fioraso che Paolo Levi ha suggellato in un “[…] Grazie a un’intuitiva ed elegante realizzazione visiva, si definisce l’incredibile complicità e convivenza di realtà con poesia.”